Chi fa la spia non è figlio di Maria 

Il caro estinto

Data don't breach!



Chi fa la spia non è figlio di Maria...

L’articolo 622 del Codice Penale punisce la rivelazione del segreto professionale, e prevede che costituisca violazione della norma penale rendere noti fatti, circostanze, informazioni, notizie la cui diffusione potrebbe creare nocumento alla persona che si è rivolta al professionista in ragione del suo stato, ufficio, arte o professione (giornalista, medico, avvocato, commercialista, assistente sociale).Dunque, perché il reato si concretizzi, è sufficiente che la violazione del segreto possa comportare un danno o un pregiudizio giuridicamente rilevanti – siano essi morali, materiali, esistenziali – alla persona offesa, ma non è necessario che li “comporti” o li “debba comportare”: è pienamente sufficiente la potenzialità dannosa dell’azione del professionista. La ratio legis sottesa al diritto di astenersi dal testimoniare per coloro che fanno parte delle categorie professionali contemplate nell' art. 200, comma 1, c.p.p., tra le quali vi è quella degli avvocati, è caratterizzata dalla esigenza di garantire il normale esercizio di quelle particolari professioni .La norma processuale appena ricordata prevede per gli  avvocati una chiara ipotesi di esenzione dal generale dovere di testimoniare (da ritenersi estesa, secondo la lettura operata da Corte cost. 8 aprile 1997 , n. 87, ai praticanti la professione forense) nonché per ogni altra persona che risulti far parte dell'ufficio della difesa, tutte le volte in cui il professionista forense (o il soggetto a lui collegabile) richiesto dagli organi inquirenti di fornire informazioni ovvero convocato dinanzi al giudice per testimoniare su ciò che sa in quanto avvocato, dichiara che intende astenersi opponendo il segreto professionale.Non è un privilegio concesso ad una categoria.

È un diritto potestativo – la cui natura impone che sia il professionista, nell'esercizio della corrispondente facoltà, ad opporre il segreto al giudice il quale giammai può rilevarlo d'ufficio – che ha per fine primario la protezione della libertà della funzione difensiva in particolare mediante la tutela della efficacia dell'esercizio della attività professionale forense e dei fondamentali diritti ad essa funzionali perché degni di rilevanza costituzionale come il diritto di azione e quello di difesa .Posto quindi che non è legalmente possibile pretendere dall'avvocato testimone o informatore la  rivelazione di quanto è a sua conoscenza tutte le volte in cui egli opponga il segreto professionale all'interrogante purché ciò che gli si domanda abbia attinenza con l'esercizio della funzione professionale, bisogna anzitutto individuare la reale portata del controllo che il giudice è tenuto ad operare su tale allegazione ove abbia motivo di dubitare della fondatezza della dichiarazione di astensione.La norma prevede che il giudice provveda agli accertamenti necessari (art. 200, comma 2, c.p.p.).Il controllo giudiziale deve ragionevolmente avere di mira anzitutto la verifica della qualifica soggettiva della persona che invoca il segreto e, accertata questa, proiettarsi sulla possibile connessione delle notizie richieste e non rivelate con l'esplicazione della addotta funzione difensiva o, più in generale, dell'attività stessa di avvocato ma non anche dell'esistenza di uno specifico mandato defensionale prima che del collegamento con il mandato stesso, non essendo l'esistenza o il mantenimento di quest'ultimo necessari per giungere a considerare oggetto di sapere  professionale quanto viene richiesto all'avvocato di rivelare. 

È sufficiente l'allegazione da parte del legale di non poter deporre sui fatti e relative circostanze richiesti perché vincolato dal segreto professionale avendoli conosciuti a causa dell'espletamento della funzione stessa (Cass. pen., Sez. V, 5 marzo 2013, n. 17979). L'espressione abbastanza chiara della norma non sembra lasciar spazio a dubbi, tantomeno ad interpretazioni ambigue che possano consentire al giudice di eludere il dovere di compiere ogni concreta verifica facendo semplicemente ricorso ad argomentazioni di carattere logico tratte dagli elementi del processo in cui la testimonianza si pretende che la testimonianza avvenga .Invero ciò che è necessario è al contempo e per sinonimia, da leggersi come fondamentale, obbligatorio, insopprimibile, inevitabile .

Pubblicato da Avvocato Sabrina Felicioni


Il caro estinto

Ai sensi della Legge n. 130 del 2001, con la quale è caduto l'obbligo di ricovero delle ceneri nei Cimiteri italiani, le modalità di conservazione sono disciplinate nel rispetto delle volontà del defunto. Nel modulo di iscrizione al Registro Italiano Cremazioni, una sezione dedicata consente di poter indicare a quale familiare affidare la conservazione a domicilio delle ceneri. Non è obbligatorio specificarlo al momento dell’iscrizione: ciascun iscritto potrà decidere, quando lo riterrà più opportuno, se dichiarare la volontà di affidare le ceneri alla conservazione o alla dispersione. L'iscrizione al Registro Italiano Cremazioni, e la relativa comunicazione delle generalità della persona che si farà carico dell'affidamento - fatta salva la sua disponibilità ad accettare la conservazione delle ceneri - consente di ridurre, peraltro, i rischi di un eventuale disaccordo fra i parenti del defunto, permanendo il quale l'urna è momentaneamente tumulata nel Cimitero. In tema di conservazione delle ceneri, siano esse affidate al domicilio o, in alternativa, tumulate o interrate, la Legge ricorda che – rispettato l’obbligo di sigillare l’urna – deve essere sempre consentita la chiara identificazione dei dati anagrafici del defunto. Per il trasporto dell’urna contenente le ceneri non sono previste norme precauzionali di tipo igienico. Si consideri che la custodia dell’urna cineraria non è solo un onore per il soggetto affidatario, ma comporta anche l’assunzione di alcuni obblighi nei confronti del Comune, che rimane il titolare formale ed istituzionale della funzione cimiteriale. 

Infatti, l’urna deve essere conservata in luogo confinato e stabile, protetta da possibili asportazioni, aperture o rotture accidentali. Si consideri che l’autorizzazione all’affidamento di un’urna cineraria non costituisce, in sé, autorizzazione alla realizzazione di un colombario o di un manufatto edile, la cui costruzione è soggetta ad altra e diversa normativa. Occorre permettere l’accesso agli altri congiunti del de cuius perché essi possano esercitare il loro diritto di visitare i resti del defunto per atti rituali e di suffragio. L’affidatario è poi anche sottoposto alle ispezioni e ai controlli di vigilanza da parte del personale comunale (polizia mortuaria, che fa parte della Polizia Locale) all’uopo preposto e risponde penalmente di eventuali profanazioni delle ceneri se tale sacrilegio si dovuto a sua colpa grave o inadempimento. Inoltre, occorre specificare che l'affidamento delle ceneri non costituisce alcuna implicita autorizzazione a qualsivoglia forma di sepoltura privata. L’istituto dell’affido delle ceneri, nella sua evoluzione storica passa attraverso la legittimazione a collocare le ceneri, definite dal DPR 285/90 con la metonimia di “urne cinerarie”, in “altro sito” oltre che nel cimitero. Detto sito, però, secondo tutta la dottrina, avrebbe comunque dovuto insistere all’interno del camposanto, anche quando fosse sorto su area cimiteriale in concessione ad enti morali (oggi: associazioni riconosciute), e non avrebbe potuto essere altrimenti, in quanto l’art. 340 del Testo Unico Leggi Sanitarie (Regio Decreto 1265/1934) pone il divieto di sepoltura al di fuori dei cimiteri con una norma che ha rilevanza di ordine pubblico (cioè, inderogabile) siccome la sua violazione non solamente è soggetta a sanzione, ma importa anche il ripristino della situazione alterata, ammettendo, del tutto eccezionalmente, la sola deroga del successivo art. 341 TULLSS (e, in sua attuazione, dell’art. 105 dPR 285/1990) cioè la tumulazione privilegiata, la quale importa la valutazione di “giustificati motivi di speciali onoranze”, con la logica conseguenza che la sepoltura al di fuori dei cimiteri non può mai divenire pratica ordinaria. 

Dal punto di vista operativo, per attuare la volontà espressa secondo la disciplina di cui alla lettera e) delcomma 1 dell’art. 3 della Legge 130/01, ribadita dalla Legge regionale 20/2007, occorre il rispetto del seguente protocollo operativo: le volontà del defunto devono essere espresse in modo inequivocabile; l’urna, sulla quale saranno apposti i dati anagrafici del defunto, dovrà essere, e rimanere, sigillata in maniera tale da impedire la profanazione delle ceneri; la consegna dell’urna al familiare custode dovrà essere verbalizzata ex art. 81 DPR 285/90; il luogo di collocazione dell’urna dovrà essere garantito dal pericolo di profanazione.
Qualora, per qualsiasi motivo, l’affidatario o i suoi eredi intendano rinunciare all’affidamento dell’urna, essi sono tenuti a conferirla al Cimitero per la tumulazione o per la deposizione nel Cinerario Comune previa acquisizione dell’autorizzazione al trasporto da parte del Comune nel quale si trova l’urna affidata. E’ stata proprio una nuova interpretazione giurisprudenziale (Consiglio di Stato parere 2957/3 del 29 ottobre 2003) che ha attuato l’affido famigliare delle ceneri. Secondo il Consiglio di Stato l’affidamento ai familiari dell’urna delle ceneri è compiutamente disciplinato dalla lett. e) del comma 1 dell’art. 3 della Legge 130/01. Bisogna, però specificare come il DPR 24 Febbraio 2004 emanato dal Presidente della Repubblica in attuazione del parere formulato dal Consiglio di Stato, sia frutto di un ricorso in sede giurisdizionale, nelle more di una compiuta normazione regionale, il comune, dunque, ha solo facoltà e non obbligo di permettere l’affido delle ceneri, siccome il suddetto DPR 24 febbraio 2004, sotto l’aspetto giuridico, pur essendo un importantissimo precedente giurisprudenziale, vale solo per quell’unico caso preso in esame (cioè il ricorso presentato da un un cittadino contro un comune italiano) e non è automaticamente estensibile a tutte le richieste di affido. 

Una sentenza, dopo tutto, fa stato tra le parti (art. 2909 c.c.). Ciò detto, proprio perché l’affido dell’urna comporta tutti gli oneri sopra elencati, mi pare opportuno verificare che il soggetto selezionato sia d’accordo nell’assumerli e ne abbia, concretamente, la possibilità: la vita odierna porta spesso a lavorare lontano dalla casa avita, non solo in un altro Comune. Si consideri poi anche che il soggetto designato come affidatario non sarà eterno e quindi dovrà, a sua volta, designare un altro affidatario per il tempo in cui avrà cessato di vivere e così via. Se chiedere alla propria figlia di custodire l’urna nella casa lasciata in eredità ha sicuramente un significato affettivo ben preciso, con il passare delle generazioni tale significato tenderà, inevitabilmente, ad affievolirsi e dunque invito a chiedersi: che valore avrà l’urna delle mie ceneri per i miei bis-bis nipoti?

Pubblicato da Avvocato Sabrina Felicioni


Data don't breach!

Interessante esperimento quello che negli USA ha portato a creare un database contenente informazioni relative ad un centinaio di consumatori inserendo dati inventati: nome, residenza, e-mail, telefono. Un’anagrafica fittizia ma studiata con attenzione affinché risultasse credibile anche ad un occhio più attento: nomi ricorrenti negli USA, indirizzi e-mail sensati rispetto al nome, numeri di telefono che corrispondono alla zona di residenza, e così via. Inoltre, i tecnici della FTC hanno inserito, per ciascuna stringa individuale, dati relativi ad uno tra tre tipici strumenti di pagamento elettronico: carta di credito, portafoglio bitcoin, ed un online payment service non meglio specificato (potrebbe trattarsi di Paypal o provider simile).Ci sono voluti solo 9 minuti prima che i malfattori che frequentano la rete provassero ad impiegare per fini illegali le identità altrui. In totale, sono stati effettuati 1.200 tentativi di utilizzo illecito dei dati. La Polizia Postale italiana dice che i furti d’identità spesso non vengono scoperti, o magari lo sono solo dopo 12-18 mesi. Perché spesso non ce ne accorgiamo nemmeno: entrano nel nostro pc, nel nostro profilo social e non lo vediamo. Una versione evoluta di ricerca credenziali è il vishing, in cui la mail ti chiede, per fregarti meglio, di chiamare un finto call center, che ti chiederà a voce quei dati. I criminali selezionano le vittime e ne osservano le abitudini, imparano chi sono e cosa fanno tramite tutte le informazioni che lasciano sui social network. Così, quando mandano la mail, sono più credibili. Come il trashing (sì, potrebbero frugare nella carta che butti al riciclo e trovare tutti i tuoi dati bancari su quell’estratto conto che hai soltanto appallottolato…). Il fenomeno del c.d. “identity theft”, ovvero del furto di identità in rete è per lo più riconducibile a due principali fattori: la errata custodia delle credenziali di autenticazione e la creazione di un account falso da parte di un terzo (c.d. "fake").

Il problema sta nel fatto che il social network, al momento della registrazione, non fornisce all'utente alcuno strumento in grado di potergli consentire una immediata capacità di individuazione dell'illecito, e quando ne viene a conoscenza, è spesso ormai troppo tardi.

Pur non corrispondendo “materialmente” ad una sostituzione della persona, in mancanza di una fattispecie incriminatrice specifica, il furto di identità in rete viene ricondotto dalla giurisprudenza di legittimità nell'ambito del reato di cui all'art. 494 c.p., relativo alla “sostituzione di persona Sul punto, la Cassazione si è pronunciata più volte ritenendo che la condotta di chi crea ed utilizzi account o caselle di posta elettronica servendosi dei dati anagrafici di un terzo soggetto, inconsapevole, è in grado di indurre in errore, non il fornitore del servizio, bensì l'intera platea di utenti, i quali, convinti di interloquire con un soggetto, si troveranno ad interagire, invece, con una persona diversa da quella che a loro viene fatta credere, integrando così la fattispecie di reato prevista dalla norma (Cass. Pen. n. 46674/2007). L'applicabilità dell'art. 494 c.p. ricorre altresì laddove viene creato un preciso profilo al quale è associata una reale immagine della persona offesa. A tal proposito, gli Ermellini hanno ritenuto integrata la figura di reato in esame nella condotta del soggetto che realizzi e si avvalga di un determinato profilo su un social network che riproduca la foto della vittima (persona offesa) ascrivendo alla stessa una descrizione degradante e, attraverso tale identità, utilizzi il sito comunicando con gli altri iscritti e condividendone i contenuti (Cass. Pen. n. 25774/2014).Giova osservare, da ultimo, che il legislatore, con d.l. n. 93/2014 (convertito dallal. n. 119/2014) ha introdotto, per la prima volta, nel codice penale, il concetto di “identità digitale”.Infatti, l'art. 9 del citato decreto, rubricato“Frode informatica commessa con sostituzione di identità digitale” ha modificato l'art. 640-ter c.p., con l'inserimento di un terzo comma, ove il legislatore ha previsto la pena della reclusione da due e sei anni e la multa da 600,00 euro a 3.000,00 euro nel caso in cui il fatto sia commesso mediante furto o indebito utilizzo dell'identità digitale in danno di uno o più soggetti; trattasi di un delitto per il quale è prevista la querela della persona offesa salvo che ricorra l'ipotesi di cui al 2° o 3° comma dell'art. 640-ter ovvero altra circostanza aggravante.
Emblematica in tal senso è stata la vicenda che aveva coinvolto una donna di Trieste che, subito dopo essere stata licenziata dalla sua datrice di lavoro, ha inteso vendicarsi inserendo le iniziali del nome ed il numero di telefono della stessa in una chat per incontri a sfondo sessuale, facendole così ricevere, anche in ore notturne, molteplici chiamate e messaggi provenienti da vari utenti della chat interessati ad incontri o a conversazioni di tipo erotico. Condannata per il reato di sostituzione di persona, l'autrice del "furto" giungeva fino in Cassazione, ma i Giudici del Palazzaccio rigettavano il ricorso in quanto "l'inserimento in una chat telematica di incontri personali, del numero di utenza cellulare di altra persona associato ad un nickname pure a costei riferibile, al fine di danneggiarla facendola apparire sessualmente disponibile, integra il reato di cui all'art. 494 c.p., nella modalità dell'attribuzione di un falso nome". Nelle motivazioni della sentenza in esame, il Giudice evidenzia una riflessione in merito alla natura dalla norma applicata. La tutela fornita dall'art. 494 del Codice Penale, infatti, dovendo intervenire in presenza di "inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua identità o ai suoi attributi reali", potendo questi per la loro collocazione in Rete evidentemente oltrepassare la ristretta cerchia di uno specifico destinatario, non è rivolta in modo esclusivo alla fede privata e alla tutela civilistica del diritto al nome, ma ha ad oggetto in linea più ampia la pubblica fede. Ora lo sai.



Pubblicato da Avvocato Sabrina Felicioni